venerdì 2 aprile 2010

I petrolieri finanziano la disinformazione sul problema clima: lo sapevate?

(Fonte: Qualenergia)
Soldi dei petrolieri continuano a finanziare la "disinformazione" sul problema clima. Cifre impressionanti a sostenere un’estesa rete di think-tank, scienziati e media. L’ultima prova in un’inchiesta di Greenpeace su Koch Industries, gruppo chimico-petrolifero poco noto al pubblico ma che è tra le più grandi società private statunitensi e mondiali (vedi allegato). Un dossier impressionante zeppo di cifre e casi di manipolazione.

Ad esempio, a gonfiare il “Climate Gate” - lo “scandalo” nato con alcune e-mail rubate da cui si desumerebbe la “malafede” di alcuni climatologi che avrebbero esagerato gli effetti del global warming (Qualenergia.it - Hacker negazionisti mentre il clima cambia davvero) – 20 organizzazioni sul libro paga di Koch.
E quel “lavoro scientifico” (Dyck, Soon et al, 2007 “Polar bears of western Hudson Bay and climate change" - in realtà un “punto di vista” e non uno studio peer reviewed) uscito nel 2007 e ampiamente ripreso dai media, in cui si diceva che i ghiacci dell’Artico si scioglievano più lentamente del previsto e che gli orsi bianchi non erano in pericolo? Finanziato da ExxonMobil, American Petroleum Institute e la Charles G. Koch foundation.

Insomma, il negazionismo è vivo e lotta …contro di noi. Solo si nasconde meglio ed è diventato più sottile. Certo, a parte le uscite fuori dal tempo di governi come il nostro o quello polacco: difficile dimenticare Berlusconi che dichiara che occuparsi di clima in tempi di crisi economica è “come se uno che ha la polmonite pensi a farsi la messa in piega” o la mozione negazionista di alcuni senatori di maggioranza” (Qualenergia.it - Cosa pensa il Governo dei cambiamenti climatici?).
Siamo in un'epoca in cui il fatto che i cambiamenti climatici siano un problema grave, causato dalle emissioni di CO2 antropogenica e da affrontare riducendo con decisione il gas serra è un assunto condiviso praticamente da tutti – tanto da essere la base da cui sono partiti i negoziati internazionali sul clima. Anche le grandi corporation del petrolio hanno ormai preso tutte ufficialmente le distanze dalle posizioni negazioniste del passato.

Eppure da vari think-tank continuano periodicamente ad arrivare report che minimizzano le conseguenze del riscaldamento, ne mettono in dubbio la responsabilità umana oppure fanno stime terroristiche dell’impatto economico che avrebbero le misure richieste per ridurre le emissioni. C’è ancora qualcuno che tira i fili?
Negli anni ‘90 ad orchestrare la campagna mediatica per negare il problema clima era la famigerata Global Climate Coalition, lobby che raccoglieva 75 grandi industrie legate in qualche modo ai combustibili fossili, tra cui Exxon Mobil, Shell, BP, Dupont, Chrysler, Chevron, General Motors e Good Year (Qualenergia.it - Negazionisti che sapevano di mentire). Con il passare degli anni l’azione della lobby era divenuta sempre più evidente e le posizioni negazioniste più difficili da sostenere apertamente: le aziende - BP e Shell prime fra tutte - avevano abbandonato l’associazione che nel 2002 si è sciolta definitivamente.

I soldi dei petrolieri però, a quanto pare, non hanno mai smesso di fluire verso le casse di chi produce “informazione” o “evidenze scientifiche” che mettano in dubbio l’urgenza di misure che li danneggino, come appunto quella di ridurre le emissioni. Le ultime prove arrivano appunto dall’inchiesta di Greenpeace. Si scopre ad esempio che Exxon Mobil, nonostante dichiari di aver “sospeso i finanziamenti a fondazioni le cui posizioni scientifiche distraggano dal dibattito su come il mondo possa ottenere in maniera ecologicamente responsabile l’energia necessaria alla crescita economica” - ha elargito negli ultimi 3 anni 8,9 milioni di dollari a fondazioni negazioniste.

Ma al centro del dossier di Greenpeace c’è come detto Koch Industries, gigante dai 100 miliardi di dollari l’anno di fatturato, attivo in 60 paesi, anche se relativamente sconosciuto al pubblico. Sono 24,9 i milioni di dollari che Koch, attraverso le sue controllate, ha speso dal 2005 al 2008 per finanziare i negazionisti. Contributi milionari ad una rete di fondazioni, centri studi e associazioni con un unico obiettivo: impedire o ritardare politiche di riduzione delle emissioni. L’elenco dei beneficiari contenuto nel dossier è lungo e impressionate.

L’“Hot Air Tour” negazionista organizzato negli Usa dalla Americans for Prosperity Foundation ad esempio è stato possibile grazie a oltre 5 milioni di dollari elargiti da Koch. La Heritage Foundation, think-tank che cerca di minimizzare il problema global warming e frena sulle politiche ambientali, di milioni ne ha presi uno, così come il conservatore, Cato Institute, in prima linea nel montare il “Climate Gate”. Al Manhattan Institute, che ha più volte ospitato conferenze della star negazionista Bjorn Lomborg, Koch ha regalato 800mila dollari. La Foundation for Research on Economics and the Environment, che sostiene che il riscaldamento globale sia inevitabile e, dunque, le misure per contrastarlo una spesa inutile, si è invece meritata 365mila bigliettoni da Koch, solo 5mila in più rispetto al Pacific Research Institute for Public Policy promotore di “An Inconvenient Truth…or Convenient Fiction”, il film fatto per contestare il famoso documentario di Al Gore, “An inconvenient truth”. Tax Foundation, think-tank da cui è uscito un report che metteva in guardia sui costi delle politiche ambientali volute da Obama, è stato invece finanziato da Koch con 325mila dollari.

Una rete notevole, anche perché si sta parlano solo della parte di finanziamenti alla luce del sole: quella che le fondazioni legate Koch sono obbligate a rendere pubblica. A tutto questo vanno poi aggiunti i soldi spesi per lobbying diretta verso i politici Usa: dal 2006 al 2009 per sensibilizzare senatori e deputati verso i propri interessi, Koch ha speso 37,9 milioni di dollari. Molto, ma meno di ExxonMobil (87,8 millioni) e Chevron (50 milioni).
L’arrivo alla presidenza di Obama, d’altra parte, ha segnato un’intensificazione delle attività di lobbying dell’industria delle fonti fossili, preoccupata dalle intenzioni ambientaliste del presidente democratico. Già nella primavera scorsa Usa Today riportava che utility e industrie legate all’energia avevano aumentato del 30% la spesa in lobbying rispetto all’epoca Bush. C’è solo da sperare che quei soldi non siano stati ben spesi. Anche se il tormentato iter della legge americana sulle emissioni – annacquata e ancora bloccata al Senato - farebbe pensare che, al contrario, l’investimento dei petrolieri stia dando i suoi frutti.

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